La creazione


LA SACRA BIBBIA RACCONTATA A BAMBINI E RAGAZZI


Tanto, tanto tempo fa il cielo, la terra e tutti gli abitanti non c'erano. Non c'era nulla di quello che noi vediamo: c'era però Dio, e tutto quello che vediamo l’ha fatto lui. Le cose andarono così. Dapprima Dio disse: «Ci sia la luce!» E la luce cominciò a sfolgora­re. Dio vide che la luce era cosa buona; allora separò la luce dalle tenebre, e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e poi mattina: e questo fu il primo giorno. Poi Dio fece il firmamento sopra le acque, e fu come una grande volta trasparente e tersa. Dio chia­mò il firmamento cielo. E fu sera e poi mattina: secondo giorno. Dio disse ancora: «Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano tutte insieme, e appaia l'asciutto». Così avvenne; Dio chiamò l'asciutto ter­ra, e le acque mare, e vide che era cosa buona. Aggiunse: «La terra produca germogli, erbe, fiori e albe­ri che diano frutto, ciascuno secon­do la sua specie». E così avvenne: sulla terra spuntarono germogli e crebbero erbe e fiori e alberi da frutto, ciascuno secondo la sua spe­cie. Dio vide che tutto questo era cosa buona. E fu sera e poi mattina: terzo giorno.  Dio disse: «Ci siano luci nel firma­mento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano a segna­re il passare dei giorni, delle stagioni e degli anni, e servano anche a illu­minare la terra». Così avvenne: Dio fece due luci più grandi, la maggio­re per illuminare il giorno e la mino­re per rischiarare la terra, insieme con tante luci piccole; cioè creò il sole, la luna e le stelle, e li pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra, regolare il giorno e la notte e separare la luce dalle tenebre. Dio vide che tutto questo era cosa buo­na. E fu sera e poi mattina: quarto giorno. Dio disse: «Le acque del mare si popolino di esseri viventi, e al di so­pra della terra, nel cielo, volino tan­te specie di uccelli». E così avvenne: Dio creò tutti gli abitanti dei mari, dalle grandi balene ai più minuscoli pesciolini, i coralli, le meduse e ogni altra creatura che vive nelle acque. Con esse creò anche tutte le creatu­re con le ali, ciascuna secondo la sua specie, e le mise a popolare il cielo. Dio vide che tutto questo era cosa buona. E fu sera e poi mattina: quinto giorno. Mancavano ancora gli abitanti della terra. Dio disse: «La terra si popoli di esseri viventi delle diverse specie: animali buoni da mangiare, bestie selvatiche, rettili e ogni altra specie che si muova sopra il suolo». Così avvenne: Dio creò le diverse specie di animali che vivono nelle foreste e nei campi, nei deserti e tra i ghiacci: vide che era cosa buona. A questo punto Dio aggiunse: «Facciamo l'uomo!» Ma non come le altre creature; infatti aggiunse: «Facciamolo a nostra immagine, a nostra somiglianza, ed egli domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sulle bestie che si muovono sulla terra». E Dio creò l'uomo a sua immagi­ne e somiglianza, e lo creò distinto in maschio e femmina. Dopo avere fatto ciò, li benedisse dicendo: «Date vita ad altri uomini e popola­te la terra; sottomettete a voi la ter­ra e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni esse­re vivente che popola la terra». Dio aggiunse: «Ecco, vi do anche tutte le piante che crescono sulla terra e ogni albero da frutto, perché vi servano da cibo. A tutti gli animali della terra e agli uccelli del cielo, io do come cibo ogni erba verde». Così avvenne: dopo aver creato l'uomo simile a sé e averlo reso pa­drone di tutta la terra, Dio vide quello che aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e poi mattina: sesto giorno. Così furono completati il cielo e la terra con tutti i loro abitanti. Allora Dio nel settimo giorno cessò da ogni lavoro, lo benedisse e lo rese sacro. Per questo il settimo giorno, che noi chiamiamo domenica, gli uomini cessano da ogni lavoro, a somiglian­za di quello che ha fatto Dio. Dio, dunque, creò il mondo e i suoi abitanti e pose l'uomo come re della sua creazione. Ci fu un re d’Israele, che si chiamava Davide, che compose questa poesia per ringra­ziare il Signore di avere creato con l'uomo il suo capolavoro: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, e la luna e le stelle da te create, che cosa è mai l'uomo perché te ne ricordi e te ne prendi cura? Eppure l’hai  fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore l’hai coronato; gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto gli hai posto sotto i suoi piedi: tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci che percorrono le vie del mare. O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!» Genesi 1-2; Salmo8

 

1. UN NOME PER OGNI ANIMALE. Genesi 2

Quando il Signore creò l'uomo, fece così: prese polvere dalla terra, la plasmò per darle la forma di un uomo, soffiò nelle sue narici un ali­to di vita, e l'uomo divenne un es­sere vivente. Dio lo chiamò Adamo. Poi il Signore piantò in Eden un meraviglioso giardino, ricco di alberi belli da vedere che producevano frutti buoni da mangiare. Un grande fiume irrigava tutto il giardino: poi di lì si divideva e for­mava quattro bracci che scorrevano per tutta la terra. E là, nel giardino di Eden, il Si­gnore pose l'uomo che aveva crea­to perché lo coltivasse e lo custo­disse. Il Signore voleva che l'uomo che aveva creato fosse felice. Davanti ad Adamo il Signore fece sfilare tutte le bestie della terra e tutti gli uccelli del cielo, per vedere quale nome l'uomo intendeva dare a ciascuno di essi: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato gli esseri viventi, quello sarebbe stato il loro nome. Così Adamo diede il nome a ogni specie di bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvati­che: e quello rimase il nome usato anche da tutti gli uomini che venne­ro dopo Adamo.

 

2. DIO CREA LA DONNA. Genesi 2

Dio aveva collocato Adamo nel meraviglioso giardino di Eden. Ma questo non bastava, perché Dio voleva che l’uomo fosse felice. Per questo disse: «Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto che sia simile a lui». Allora fece scendere il sonno sull’uomo, poi gli tolse una costola, e con essa plasmò la donna. Condusse poi la donna all’uomo, il quale l’accolse con gioia dicendo: «Questa è carne della mia carne, e osso delle mie ossa; è proprio simile a me». E la chiamò Eva.

 

 3. IL SERPENTE NEL GIARDINO. Genesi 2-3
 
 


Adamo ed Eva vivevano felici nel giardino di Eden. Tutto là era bello da vedere, e senza dovere lavorare gli alberi davano ogni sorta di buoni frutti da mangiare. Il Signore Dio aveva dato tutto ad Adamo ed Eva, con una sola ec­cezione. Disse: «Potete mangiare tutti i frutti degli alberi del giardino. Ma in mezzo al giardino c'è un al­bero speciale, l'albero della cono­scenza del bene e del male: dei suoi frutti non dovete mangiare, altrimenti morirete». Così aveva detto il Signore. Ora, il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche. Esso non voleva bene all'uomo e alla donna, anzi cercava la loro rovina, perché quel serpente in realtà era il demonio, il nemico degli uomini. Così un giorno, là nel giardino di Eden, il serpente si rivolse alla don­na e le disse: «E’ vero che Dio vi ha proibito di mangiare i frutti degli al­beri del giardino?» «No» rispose Eva. «Possiamo mangiare tutti i frutti, tranne quelli dell'albero della conoscenza del bene e del male. Dio ha detto che non lo dobbiamo neppure toccare, altrimenti moriremo!» «Non è vero che morireste» mentì il serpente. «Anzi, Dio vi ha proibito quei frutti perché sa che se ne man­giate diventerete come lui, perché conoscerete il bene e il male.» Allo­ra Eva guardò i frutti dell'albero proibito, e li trovò desiderabili. Ne prese uno, ne mangiò una parte, poi diede l'altra ad Adamo, il quale ne mangiò lui pure. In quel momento si aprirono i loro occhi, si accorsero di essere nudi e subito intrecciarono foglie di fico per coprirsi. Adamo e Eva pro­varono una grande vergogna, e compresero allora il male che ave­vano commesso. Il Signore aveva dato loro tanti benefici, e loro in cambio gli avevano disobbedito.

 

4. LA DISOBBEDIENZA SCOPERTA. Genesi 3

Adamo ed Eva, nel giardino di Eden, avevano disobbedito al Si­gnore Dio, mangiando i frutti dell’albero che egli aveva proibito di mangiare. Essi udirono, a un certo punto, il Signore Dio che passeggiava nel giardino; allora si nascosero in mez­zo agli alberi. Il Signore chiamò l'uomo: «Dove sei?» e Adamo rispose: «Ho udito i tuoi passi e mi sono nascosto dalla paura, perché sono nudo». «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo?» osservò il Signore: «tu hai mangiato i frutti che ti avevo co­mandato di non mangiare!» «Me ne ha dato da mangiare la donna che tu hai creato e mi hai posto accanto» disse l'uomo. «Che hai fatto?» chiese Dio ad Eva. «È stato il serpente a darne a me» rispose la donna; «egli mi ha ingannata e io ho mangiato!» Allora Dio pronunciò il castigo. Al serpente disse: «Tu dovrai per sem­pre strisciare sul ventre». E a Ada­mo e Eva disse: «Non potete più stare qui nel giardino. Andrete fuori e vi guadagnerete da mangiare con la fatica del lavoro». Pose poi un angelo dalla spada fiammeggiante a custodire l'ingresso del giardino.

 

5. CAINO E ABELE. Genesi 4

Adamo e Eva ebbero due figli, di nome Caino e Abele, Caino faceva l’agricoltore e Abele il pastore. Un giorno i due fratelli offrirono un sacrificio a Dio: Caino gli offrì i migliori frutti dei campi, Abele il più bell’agnello del suo gregge. Abele presentò la sua offerta con cuore sincero: per questo il Signore gradì il suo dono, e non gradì invece quello di Caino. Quest’ultimo si adirò molto e divenne geloso di suo fratello. Dio disse a Caino: «Perché sei irritato? Perché sei scuro in volto? Domina la tua gelosia».

 

6. CAINO UCCIDE ABELE. Genesi 4

Caino era geloso di suo fratello Abele perché il Signore gradiva i suoi doni, che egli offriva con cuore sincero, e mostrava di non gradire quelli di Caino stesso. La gelosia e l'ira di Caino crebbero al punto che un giorno egli invitò Abele nei cam­pi, e là lo uccise. Dio, che vede tutto, gli chiese: «Dov'è tuo fratello?» e Caino, ag­giungendo anche la menzogna al suo delitto, rispose: «Che ne so io? Sono forse io il custode di mio fra­tello, così che debba sempre sapere dove si trova?» «La voce del sangue di tuo fratel­lo grida verso di me» disse il Signo­re; «per questo tu dovrai fuggire di qui e andare ramingo per il resto della tua vita». Caino allora si impaurì. Temette che qualcuno, vedendolo fuggiasco, lo uccidesse. Ma il Signore non vuole la morte di nessuno, neppure di chi si comporta male come Caino. Per questo mise su di lui un se­gno di avvertimento, perché nessu­no gli facesse del male. Così Caino si allontanò dal Signore, e andò ad abitare nella terra di Nod. Dopo che Caino ebbe ucciso Abele, il Signore concesse un altro figlio ad Adamo e Eva, e lo chiamarono Set.

 

7. TRE ABILI FRATELLI. Genesi 4-5

In quei giorni vissero tre fratelli, Iabal, Iubal e Tubalkain. Essi divennero famosi perché insegnarono il loro lavoro ad altri uomini che vennero dopo di loro. Iabal faceva l’allevatore di bestiame, Iubal era un abile suonatore di cetra e di flauto; Tubalkain era fabbro, maestro nel lavorare il rame e il ferro. I primi uomini si comportavano male, dimostrando di somigliare più a Caino , che ad Abele. Uno di loro, di nome Lamech, era tanto cattivo e violento che si vendicava di ogni piccolo torto ricevuto.   

 

8. L’ARCA DI NOE’. Genesi 6-7


Tutti gli uomini che vivevano sulla terra erano cattivi, perché facevano quello che è male agli occhi del Si­gnore. Tutti, tranne i componenti della famiglia di Noè. Dio si stancò di tanto male che vedeva commettere di continuo, e decise di eliminare tutti i cattivi. Per questo si presentò a Noè e gli disse: «Io manderò un diluvio, una grande alluvione che spazzerà via ogni vita sulla terra, tranne coloro che voglio salvare». E gli diede un ordine: «Co­struisci un'arca, una grande nave. Deve essere a tre piani, col tetto e le finestre, lunga 150 metri, larga 25 e alta 15». Noè si mise al lavoro, insieme con i suoi tre figli Sem, Cam Iafet, mentre sua moglie e le mogli dei suoi figli raccoglievano cibo e ve­stiario per vivere dentro l'arca. I vicini di casa di Noè lo prende­vano in giro, perché pensavano che fosse matto a costruire una nave in mezzo alla pianura, lontano dal mare. Ma Noè non si lasciava im­pressionare, e continuava il lavoro. Quando ebbe finito la costruzione, raccolse da tutta la regione due ani­mali per ogni specie e li fece entrare nell'arca, dove infine si trasferì an­che lui con tutta la sua famiglia.

  

9. DOPO IL DILUVIO. Genesi 8-9

Seguendo il comando del Signore Noè aveva costruito l'arca e vi era entrato con la sua famiglia e con una coppia di animali per ogni spe­cie. Dopo una settimana cominciò a piovere: piovve tanto ma tanto, per quaranta giorni, da provocare un'immensa alluvione che coprì tut­to, case, alberi e montagne. Solo l'arca galleggiava sulle acque, pro­prio come il Signore aveva annun­ciato. Finalmente cominciarono a soffiare i venti, e l'acqua prese a ca­lare. Apparvero le cime dei monti, e l'arca si posò sul monte Ararat. Trascorsi quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatto nell’arca e disse: «Voglio far uscire una colomba, per sapere se da qualche parte vi è terra asciutta». Ma la co­lomba tornò nell'arca, poiché non trovò dove posarsi. Noè attese altri sette giorni, poi fece uscire di nuovo la colomba; ma anche quella volta essa tornò, tenendo però nel becco un ramo­scello di olivo: segno che le acque si erano ritirate. Dopo altri sette giorni Noè lasciò andare di nuovo la colomba, che questa volta non tornò più. Passarono altre quattro settima­ne, e Dio ordinò a Noè: «Esci dall'arca tu e tua moglie, i tuoi figli e le loro mogli, e tutti gli animali d'ogni specie che hai con te: uccelli, rettili, bestiame domestico. Falli uscire dall’arca, perché si spandano sulla ter­ra e si moltiplichino». Obbediente al Signore che aveva voluto salvare lui e la sua famiglia, Noè uscì dall'arca con tutte le per­sone e gli animali che essa contene­va, e subito innalzò un altare per of­frire un sacrificio di ringraziamento al Signore. Il Signore Dio gradì il sacrificio di Noè; benedisse lui e i suoi figli e disse loro: «Ecco: la vita torna sulla terra, e tutto quello che si trova sul­la terra io lo do a voi».

 

10. IL SEGNO DELL’ARCOBALENO. Genesi 8-9

Quando Noè, salvato dal diluvio insieme con la sua famiglia e gli animali dell’arca, mise piede sulla terra asciutta, per prima cosa ringraziò il Signore che era stato così buono con lui. Allora il Signore gli disse: «Da oggi in poi, fino a quando durerà la terra, non vi sarà più un diluvio come questo; vi saranno sempre semina e mietitura, freddo e caldo, estate e inverno. Faccio questa promessa a te e ai tuoi discendenti, e come segno della promessa pongo tra le nubi l’arcobaleno».

 

11. LA TORRE DI BABELE. Genesi 11

Dopo i giorni del diluvio, gli uomini erano tornati a moltiplicarsi sulla terra, ed erano come una grande famiglia; tutti parlavano la stessa lin­gua. Abitavano nella pianura di Sennaar, e si sentivano molto im­portanti. «Costruiamo una città» si dissero «con una torre tanto alta che arrivi a toccare il cielo. Essa ci terrà sempre uniti, e anche in futuro tutti si ricorderanno di noi». Com'erano orgogliosi della loro idea! Ma essi stavano dimenticando Dio; non si chiesero se il loro pro­getto era secondo la volontà del Si­gnore: pensavano di poter fare a meno di lui. Per questo il Signore Dio inter­venne. Quando la costruzione era già molto avanzata, egli cambiò il loro linguaggio, sicché tutti quegli uomini orgogliosi non riuscivano più a intendersi tra loro e dovettero interrompere il lavoro di costruzione - della grande torre. Gli uomini che riuscivano a capir­si tra loro si unirono in gruppi: tutti si allontanarono dalla città e anda­rono ad abitare paesi diversi, di­sperdendosi su tutta la terra. La città che lasciarono interrotta, dove presero a parlare lingue diver­se, fu chiamata Babele, nome che in effetti significa confusione.

 

  12. DIO CHIAMA ABRAMO. Genesi 12

Abramo era un uomo nato a Ur, una città della Mesopotamia; insie­me con suo padre e tutta la famiglia si era trasferito a Carran, una città del nord, dove si guadagnava da vivere facendo il pastore e l'allevatore di bestiame. Abramo si trovava dunque a Car­ran, quando gli accadde una cosa straordinaria: il Signore Dio gli rivol­se la sua parola. A quel tempo tutti gli uomini avevano dimenticato il Signore, e adoravano tante divinità diverse che si erano inventati e si tramandavano di padre in figlio. Ma Abramo riconobbe la voce dell'uni­co vero Dio, il Signore, quando egli rivolse a lui. Gli disse: «Parti di qui, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedi­rò; renderò grande il tuo nome e at­traverso di te darò grandi benefici agli uomini di tutta la terra». Abramo si fidò della parola del Signore, e per quanto gli dispiaces­se di lasciare Carran subito si mise in cammino verso sud, verso il pae­se di Canaan, portando con sé sua moglie Sara, suo nipote Lot, i servi e le greggi, con i pastori incaricati di condurle al pascolo.

 

13. LA NUOVA PATRIA DI ABRAMO. Genesi 12

Seguendo l’invito di Dio, Abramo giunse nella terra di Caanan, quella che poi si chiamò Palestina. Qui giunto, udì di nuovo la voce del Signore che gli promise: «Io darò questa terra ai tuoi discendenti!» Allora Abramo, in segno di ringraziamento e di fiducia, eresse sul posto un altare al Signore. Si mise poi a percorrere tutto il paese che era ormai divenuto la sua nuova patria. Da Sichem dove il Signore gli parlò, si spostò a Betel, dove innalzò un altro altare, e andò infine ad accamparsi nel Neghev.

 

14. LA PROMESSA DELLA DISCENDENZA. Genesi 14-17

Abramo aveva gran numero di be­stiame, e altrettanto ne aveva suo nipote Lot. Poiché il paese dove abitavano non bastava per entram­bi, decisero di dividersi. Lot andò ad accamparsi con le sue greggi e i suoi pastori presso Sodoma, mentre Abramo rimase in Canaan. Poco tempo dopo, nel corso di una guerra condotta da quattro re contro la regione di Sodoma, Lot con i suoi familiari e i servi fu fatto prigioniero e condotto via. Quando Abramo lo seppe, radunò tutti i suoi dipendenti e partì all'inseguimento dei quattro re. Li raggiunse, piombò sul loro accampamento di notte, li sconfisse e liberò Lot, recuperando anche le ricchezze di cui i quattro re avevano fatto bottino. Al ritorno in­contrò Melchisedek, re di Salem e sacerdote del Dio altissimo, il quale lo benedisse. Il Signore Dio aveva promesso di dare la terra di Canaan ai discen­denti di Abramo. Ma Abramo e sua moglie Sara erano già vecchi, e non avevano figli: dov'erano i discen­denti? Abramo non capiva; ma Dio insisteva. «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci» gli disse una volta; «ebbene, altrettanto numerosa sarà la tua discendenza».

 

15. TRE MISTERIOSI VISITATORI. Genesi 21

Abramo aveva piantato le sue ten­de alle querce di Mamre. Un gior­no, nell'ora più calda, egli se ne sta­va seduto all'ingresso della sua ten­da quando, alzando gli occhi, vide tre uomini davanti a sé. Subito, se­condo le buone usanze dell'ospitali­tà, egli fece portare loro acqua per lavarsi i piedi; poi entrò nella tenda e disse a Sara di affrettarsi a prepa­rare le focacce, corse al bestiame, scelse un vitello tenero e lo fece cu­cinare, e quando tutto fu pronto of­frì da mangiare ai suoi tre misteriosi visitatori. Quando essi ebbero mangiato, annunciarono: «Torneremo tra un anno, e allora tu e Sara tua moglie avrete un figlio». Sara, che stava ad origliare da dentro la tenda, quando sentì quel­le parole rise dentro di sé, pensan­do che ormai, vecchia com'era, ri­sultava impossibile avere un bambino. Ma il Signore - perché quei tre visitatori altri non erano se non il Si­gnore - disse ad Abramo: «Perché Sara ha riso? C'è forse qualcosa di impossibile per Dio?» E infatti tutto avvenne come il Si­gnore aveva annunciato. Abramo e Sara, benché vecchi, ebbero un bambino, a cui fu posto nome Isacco, che significa “Dio ha sorriso”.

 

16. FUOCO DAL CIELO SU SODOMA. Genesi 18-19

Gli abitanti di Sodoma e delle città vicine si comportavano molto male agli occhi del Signore: tutti, ad ec­cezione di Lot, il nipote di Abramo. Il Signore si stancò di tutto quel male, e manifestò al suo amico Abramo il proposito di distruggere quelle città. Ma Abramo osservò: «Forse a Sodoma ci sono cinquanta uomini onesti, che si comportano come piace a te: vuoi tu, Signore, farli morire insieme con i cattivi? Non sarebbe giusto». Rispose il Si­gnore: «Se troverò a Sodoma cin­quanta giusti, per riguardo a loro ri­sparmierò tutta la città». «Forse i giusti non saranno proprio cinquan­ta... forse saranno solo quaranta» ri­prese Abramo. E il Signore: «Per amore di quei quaranta, non di­struggerò la città». «Non arrabbiarti, Signore» disse ancora Abramo: «forse non saranno quaranta, ma trenta... venti... dieci!» E ad ogni cifra il Signore promette­va che, per riguardo a quei pochi, non avrebbe distrutto la città. Ma a Sodoma non si trovarono neppure dieci giusti; il Signore mandò i suoi angeli ad avvertire Lot di mettersi in salvo con la sua famiglia, e fece pio­vere fuoco dal cielo; Sodoma e le città vicine andarono distrutte.

17. ABRAMO MESSO ALLA PROVA DA DIO. Genesi 22

Un giorno Dio disse ad Abramo: «Offrimi in sacrificio il tuo unico fi­glio, Isacco». A quel tempo non era raro che gli uomini uccidessero i propri figli per rendere omaggio ai loro dèi: Abramo forse pensò che il Signore non era diverso dagli altri dèi. Ma si meravigliò ugualmente: Dio gli aveva promesso una nume­rosa discendenza, ed ora gli chiede­va di sacrificare il suo unico figlio. Egli era molto vecchio, altri figli non avrebbe potuto averne: come dun­que si sarebbero realizzate le pro­messe annunciate dal Signore? Abramo non capiva: ma se quella era la volontà di Dio, bisognava obbedire. Una mattina caricò l'asino con della legna, e partì con Isacco che era ormai un ragazzo. Giunto al monte Moria, lasciato l'asino caricò la legna sulle spalle di Isacco e con lui salì il monte. Sulla cima preparò un altare, vi dispose la legna e so­pra la legna mise il ragazzo; estrasse il coltello, e stava per vibrare il col­po quando un angelo di Dio gli fer­mò la mano e gli disse: «Non ucci­dere il ragazzo, non fargli alcun male! Ora Dio sa che tu lo ami so­pra ogni cosa, tanto che non gli hai rifiutato il tuo unico figlio». Dio ave­va messo Abramo alla prova.

 

18. UNA SPOSA PER ISACCO. Genesi 24

Quando Isacco ebbe l'età adatta a prendere moglie, suo padre Abra­mo chiamò il più fidato dei suoi di­pendenti e lo mandò a Carran a cercare la sposa. Carran era la città dalla quale Abramo stesso era sceso nella terra di Canaan, e dove vive­vano ancora i suoi parenti. Il servo prese dieci cammelli e molti gioielli, e partì. Giunto a Car­ran, si fermò fuori città, presso il pozzo dove al tramonto le donne venivano ad attingere acqua, e pre­gò il Signore: «Signore, non so come riconoscere la fanciulla che hai destinato ad Isacco. Fa' che sia colei alla quale chiederò da bere e che me ne darà e ne darà anche ai cammelli». A un certo punto vide avvicinarsi con la brocca in testa una bella fan­ciulla. «Dammi da bere» le chiese, ed ella subito rispose: «Certo, quan­to ne vuoi; e anche i tuoi cammelli avranno sete». La fanciulla si chiamava Rebecca, ed era proprio della famiglia dei pa­renti di Abramo. Quando il servo espose al padre di lei le ragioni del suo viaggio, egli chiese alla giovane se intendeva divenire la sposa di Isacco. Ella acconsentì, e il servo la condusse nella terra di Canaan.

19. LA SPOSA VELATA. Genesi 24-25

La carovana era ormai giunta nella terra di Canaan. Circondata dalle sue ancelle, la giovane Rebecca guardava la terra che ora diveniva la sua patria. Verso sera, alzando gli occhi vide un giovane venire verso la carovana. Quando seppe che era Isacco, il suo promesso sposo, Rebecca sceso dal cammello e si coprì il volto con un velo: lo sposo doveva vedere il suo viso soltanto il giorno delle nozze. Isacco e Rebecca celebrarono le nozze, e qualche anno dopo ebbero due figli gemelli, Esaù e Giacobbe.  

 

20. PER UN PIATTO DI LENTICCHIE. Genesi 25

Il Signore Dio aveva stipulato un patto con Abramo. Quest'ultimo si impegnava a scegliere il Signore come suo unico Dio, e in cambio il Signore si impegnava a dargli il possesso della terra di Canaan e una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare. Dopo Abramo, il patto valeva per suo figlio Isacco, e dopo di lui per il suo figlio primogenito, cioè Esaù. Ma il fratello gemello di Esaù, Giacobbe, voleva per sé i diritti del figlio primogenito. Un giorno Esaù tornò stanco e affamato dalla caccia, e trovò Gia­cobbe che aveva cucinato un piatto di lenticchie rosse. «Dalle a me, ché ho fame» disse Esaù a Giacobbe. E Giacobbe, pronto: «Cedimi in cambio la tua primogenitura». «Sto morendo di fame: a che cosa mi serve la primogenitura? Prenditela pure» gli rispose il fratello. «Giuramelo subito!» insistette Giacobbe. Esaù giurò, mangiò il piatto di lenticchie, poi si alzò e se ne andò. Egli dimostrò in questo modo di di­sprezzare le promesse del Signore Dio, e soltanto in seguito si rese conto di quanto aveva perduto agendo in modo così sciocco.

 

21. GIACOBBE INGANNA IL PADRE. Genesi 27

Esaù aveva ceduto i suoi diritti di primogenito a suo fratello Giacob­be. Ma perché la cosa avesse pieno valore, era necessaria la benedizio­ne del loro padre Isacco. Ora, Isacco non avrebbe mai concesso la benedizione a Giacob­be, perché il primogenito era Esaù, che era anche il suo figlio prediletto. Rebecca invece preferiva tra i suoi due figli Giacobbe, e gli suggerì il modo di ottenere con l'inganno la benedizione del padre. Accadde un giorno, quando Isac­co, ormai vecchio e quasi cieco, chiamò Esaù e gli disse: «Tu sei un cacciatore: esci a catturare della sel­vaggina, preparami un buon piatto e io ti benedirò prima di morire». Quando Esaù si fu allontanato per cercare la selvaggina, Rebecca chiamò il figlio Giacobbe e gli riferì le intenzioni di Isacco; poi aggiunse: «Portami subito due bei capretti del nostro gregge; io preparerò con essi un piatto gustoso per tuo padre, ed egli benedirà te». «Sai che mio fratello è molto pe­loso» osservò Giacobbe: «se mio padre mi tocca, si accorge che non sono Esaù, e invece di benedirmi mi maledirà!» Rispose Rebecca: «Tu fa' come ti dico». Poi con i due ca­pretti preparò un buon piatto, fece indossare a Giacobbe gli abiti di Esaù e avvolse le pelli dei capretti intorno al collo e alle braccia del fi­glio prediletto. Giacobbe si presentò al padre con la vivanda, e fingendo di essere Esaù gli chiese di benedirlo. «Hai fatto presto a trovare la sel­vaggina» osservò il vecchio Isacco; poi aggiunse: «Avvicinati e lasciati toccare; voglio sapere se sei proprio il mio figlio Esaù». Giacobbe si avvicinò; Isacco lo toccò, e disse: «La voce mi sembra quella di Giacobbe, ma le braccia sono le braccia di Esaù!» e gli dette la benedizione dei primogeniti.

 

22. ISACCO BENEDICE IL FIGLIO. Genesi 27

«Avvicinati e baciami, figlio mio!» Disse il vecchio Isacco. Giacobbe obbedì. Isacco aspirò l’odore dei suoi abiti, e gli diede la benedizione. Con essa il patto, stipulato dal Signore prima con Abramo e poi con Isacco, passava a Giacobbe. Disse Isacco: «Ecco: l’odore di mio figlio è come l’odore che sale da un campo fertile e ricco di frutti, un campo benedetto dal Signore. Il Signore ti concede la rugiada del cielo e abbondanza di frumento e di mosto. E tutti ti onorino e si inchinino davanti a te». 

 

23. L’INGANNO SCOPERTO. Genesi 27-28

Aiutato dalla madre Rebecca, Gia­cobbe aveva ingannato il padre: fa­cendosi passare per il fratello Esaù, si era fatto dare la benedizione ri­servata ai primogeniti, quella benedizione che portava con sé l'amici­zia del Signore Dio. Quando Esaù, che era uscito a caccia come il padre gli aveva chie­sto, tornò a casa, con la selvaggina catturata preparò una vivanda e la portò al vecchio Isacco. Questi, che era ormai quasi cieco, gli chiese: «Chi sei tu?» «Sono il tuo figlio pri­mogenito» rispose Esaù. «Chi era dunque colui che si è presentato prima di te» riprese Isacco «e che io ho già benedetto?» L'inganno fu così scoperto. Esaù si adirò molto e disse: «Quando no­stra madre sarà morta, ucciderò mio fratello!» Rebecca si preoccupò di questa minaccia; chiamò Giacob­be e gli disse: «Fuggi, fino a quando tuo fratello non si sarà calmato. Va' per qualche tempo a Carran, da mio fratello Labano. Diremo a tuo padre che vai dai nostri parenti a cercarti una sposa». Il vecchio Isacco fu d'accordo: come aveva fatto lui stesso, così Giacobbe non doveva prendere moglie tra le donne di Canaan.

 

24. UNA SCALA FRA TERRA E CIELO. Genesi 28

Giacobbe era in fuga da suo fratello Esaù, al quale aveva carpito con l'inganno la benedizione del primo­genito e quindi le promesse di Dio. Esaù era molto adirato con lui; chis­sà se almeno il Signore aveva per­donato il suo inganno? Una sera si coricò per terra a dor­mire, usando una pietra come guanciale. Addormentatosi, vide in sogno una scala che dalla terra rag­giungeva il cielo, e gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. E il Signore stesso gli si fece davanti e gli disse: «Io sono il Signore, Dio di Abramo e Dio di Isacco, io ti darò una discendenza numerosa come le stelle del cielo e ad essa darò la ter­ra sulla quale tu stai. Ti proteggerò dovunque andrai, e ti farò tornare in questo paese». Giacobbe si svegliò tutto pieno di timore dicendo tra sé: «Il Signore è in questo luogo, e io non lo sapevo! Questa è la casa di Dio, questa è la porta del cielo». Giacobbe prese allora la pietra che gli era servita da guanciale, la drizzò come una stele, la rese sacra versandovi sopra dell'olio e chiamò quel luogo Betel, nome che signifi­ca "casa di Dio". Poi fece voto di rimanere sempre fedele a Dio.

 

25. GIACOBBE INGANNATO. Genesi 29

Labano, zio di Giacobbe, aveva due figlie: Lia, la maggiore, e Rachele. Giacobbe chiese a Labano quest’ultima in sposa e Labano acconsentì a patto che prima Giacobbe lavorasse per lui sette anni. Ma al termine Labano, invece, gli dette Lia, dicendo: «Da noi non si usa che la figlia minore vada sposa prima della maggiore. Se vuoi anche Rachele, lavora per me altri sette anni». A quei tempi era lecito che un uomo avesse diverse mogli. Così Giacobbe lavorò per Rachele altri sette anni, perché l’amava molto.  

 

26. PACE TRA I FRATELLI. Genesi 32-33

Giacobbe rimase presso lo zio La­bano quattordici anni, durante i quali aveva lavorato per lui ma anche per sé, ed era divenuto molto ricco in bestiame di varia specie. Decise allora di tornare nella terra di Canaan, che Dio aveva promes­so di dare alla sua discendenza; rac­colse le mogli, i figli e tutte le sue proprietà, e partì. Lungo il cammino fu preso però da grande timore a motivo di suo fratello Esaù, che egli aveva ingan­nato e del quale temeva la vendet­ta. Allora gli mandò in dono duecento capre e venti capri, duecento pecore e venti montoni, trenta cammelle con i loro piccoli, quaranta giovenche e dieci torelli, venti asine e dieci asini. Il giorno dopo egli vide venire verso di lui Esaù con quattrocento uomini: non sapeva se suo fratello aveva gradito il suo dono, e con timore si prostrò sette volte fino a terra davanti a lui, per dimostrargli il massimo rispetto. Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò e lo baciò, ed entrambi si misero a piangere dalla commozione. Giacobbe gli presentò poi le sue mogli e i suoi figli, e quindi riprese­ro ciascuno il proprio cammino.

 

27. GIACOBBE CAMBIA NOME. Genesi 32

Una volta accadde a Giacobbe un episodio misterioso. Era in cammi­no con la sua famiglia e le sue greg­gi, ma si ritrovò solo sulla riva del fiume Iabbok. Era notte, quando un uomo gli si avvicinò e lottò con lui fino all'aurora. A quel punto lo sco­nosciuto stava per allontanarsi, ma Giacobbe comprese che forse il suo avversario era un inviato di Dio. Per questo gli disse: «Non ti lascerò an­dare, se prima non mi avrai bene­detto». Allora quegli lo benedisse e aggiunse: «D'ora in poi non ti chia­merai più Giacobbe, ma Israele».

 

28. I DODICI FIGLI DI GIACOBBE. Genesi 35

Mentre era stato lontano dalla terra di Canaan, Giacobbe, che si chia­mava anche Israele, divenne padre di numerosi figli; altri figli, poi, egli ebbe una volta tornato nella terra che il Signore aveva promesso di dare ai suoi discendenti. Questi sono i nomi dei dodici figli maschi di Giacobbe-Israele: il pri­mogenito, Ruben, poi Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zàbulon, Dan, Nèftali, Gad, Aser, Giuseppe e Be­niamino. Tutti insieme, con le loro mogli e i loro figli, si stabilirono in Canaan come pastori nomadi.

 

29. GIUSEPPE IL SOGNATORE. Genesi 37

Giacobbe amava Giuseppe più di tutti gli altri suoi figli, perché era il figlio che egli aveva avuto in vec­chiaia dalla sua amata moglie Ra­chele. Era dunque, Giuseppe, il suo figlio più piccolo, perché al tempo in cui si verificarono questi avveni­menti Beniamino, l'ultimo figlio di Giacobbe, non era ancora nato. Giacobbe aveva donato a Giu­seppe una veste con le maniche lunghe, che, in confronto con le corte vesti degli altri, era un abito principesco. I fratelli, vedendo la predilezione di Giacobbe per Giu­seppe, ne divennero invidiosi e non erano più capaci di trattarlo amiche­volmente. Una volta Giuseppe, che era allora un giovanetto e andava a pascolare il gregge con i fratelli, fece un sogno e lo raccontò ai fratelli: «Ho sognato che stavamo nei cam­pi a legare i covoni di grano, quan­d'ecco che il mio covone rimase dritto, mentre i vostri tutt'attorno si inchinavano davanti al mio». Quelle parole resero i fratelli fu­renti, perché a quei tempi i sogni erano considerati un'anticipazione di quello che sarebbe accaduto. Così, tutti adirati, gli risposero: «Pre­tendi forse di diventare più impor­tante di tutti noi, e che noi ci inchi­niamo davanti a te?»

 

30. GIUSEPPE SOGNA ANCORA. Genesi 37

Giuseppe, che aveva allora diciassette anni, fece un altro sogno e questa volta lo raccontò a suo padre e ai suoi fratelli. «Sentite» disse: Ho sognato che il sole la luna e undici stelle si inchinavano davanti a me. Anche il significati di questo nuovo sogno era chiaro. Quella volta fu il padre Giacobbe a parlare: «Che sogno è mai questo? Dovremmo forse io, tua madre e i tuoi fratelli inchinarci davanti a te? Credi forse di diventare tu, il più giovane, più importante di tutti noi? » 

 

31. GIUSEPPE VENDUTO DAI SUOI FRATELLI. Genesi 37

Giuseppe aveva diciassette anni, quando un giorno il padre lo man­dò a vedere come stavano i suoi fratelli, che erano a pascolare le greggi lontano da casa. I fratelli non amavano Giuseppe, perché era il prediletto del padre ed erano con­vinti che egli si ritenesse più impor­tante di loro. Giuseppe camminò a lungo, e finalmente trovò i fratelli a Dotan. Essi lo videro da lontano e, mentre si avvicinava, complottaro­no tra loro: quella doveva essere la volta buona per sbarazzarsi di lui, e decisero di farlo morire. «Lo getteremo in una cisterna» dissero. «Poi racconteremo a nostro padre che una bestia feroce l'ha sbranato!» Ma Ruben, il fratello maggiore tentò di salvarlo. Disse agli altri: «E’ nostro fratello, non uccidiamolo! Gettiamolo in una cisterna, ma non togliamogli la vita». Ruben intende­va infatti tornare poi di nascosto a liberarlo. Quando Giuseppe arrivò, gli tol­sero la bella veste con le maniche lunghe che il padre gli aveva regala­to, lo gettarono in una cisterna vuo­ta e sedettero a mangiare. Alzando gli occhi, i fratelli videro passare una carovana di mercanti. Allora pensarono: «Che guadagno c'è ad ucciderlo? Vendiamolo piut­tosto a quei mercanti». Così fecero: vendettero Giuseppe come schiavo ai mercanti per venti monete d'argento. Poi presero la sua veste, uccisero una capra, ne spruzzarono il sangue sulla veste e la presentarono al padre dicendo: «L'abbiamo trovata; guarda se è la veste di Giuseppe». Il padre Gia­cobbe prese la veste e la riconobbe: allora pianse a lungo, pensando che suo figlio fosse stato sbranato da una bestia feroce. Quella carovana di mercanti era diretta in Egitto. E fu così che Giu­seppe fu condotto in Egitto.

 

 
Giuseppe, il giovane che i suoi fratelli avevano vendu­to ai mercanti, da questi ul­timi era stato condotto in Egitto e rivenduto a Potifar. Potifar era un uomo importante in Egitto; era il capo delle guardie del Faraone. Egli prese a ben volere Giuseppe, per­ché vedeva che era un giovane serio, attento a svolgere bene il suo lavoro, e allora gli affidò la direzio­ne della sua casa. Giuseppe pensava spesso a casa sua, a suo padre, ora che era schia­vo in un paese straniero. Ma la sua situazione peggiorò ulteriormente quando la moglie di Potifar volle fargli del male e lo accusò, davanti al marito, di essersi comportato in maniera disonesta. Non era vero, ma Potifar credette alla moglie e fece cacciare Giuseppe in prigione. Dopo qualche tempo furono im­prigionati con Giuseppe anche il capo dei coppieri e il capo dei pa­nettieri del Faraone. Questi suoi compagni una notte fecero un so­gno, ma non sapevano interpretar­ne il significato. Fu Giuseppe a dare loro la spiegazione. Il capo dei coppieri raccontò: «Ho sognato una vite con tre tralci sui quali maturavano i grappoli; io presi l'uva, la spremetti nella coppa e la diedi in mano al Faraone». Giusep­pe spiegò: «I tre tralci sono tre gior­ni: fra tre giorni il Faraone ti libererà dalla prigione e ti ridarà la tua cari­ca come prima. E allora, ti prego di ricordarti di me: dì al Faraone che io sono innocente!» lì capo dei panettieri allora rac­contò anch'egli il suo sogno: «Por­tavo sulla testa tre canestri di pane bianco e di dolci per il Faraone, ma gli uccelli calavano sui canestri e ne mangiavano il contenuto». Giusep­pe gli disse: «So che cosa significa. I tre canestri sono tre giorni: fra tre giorni il Faraone deciderà la tua sor­te, e ti farà impiccare». Le cose andarono proprio come Giuseppe aveva detto. Ma il capo dei coppieri si dimenticò di Giusep­pe e non fece nulla per liberarlo. Trascorsero due anni, dopo i quali il Faraone fece un sogno. Gli parve di trovarsi presso il Nilo, il grande fiume da cui dipende la vita dell'Egitto. Dal fiume uscirono pri­ma sette vacche grasse, che si mise­ro a pascolare; poi uscirono sette vacche  magre,  che  divorarono quelle grasse. Sognò ancora sette spighe, belle e piene, che spuntava­no da un unico stelo; ma dopo spuntarono sette spighe vuote, che inghiottirono quelle piene. Quando si svegliò, il Faraone convocò tutti i sapienti del suo re­gno perché gli spiegassero i due so­gni, ma nessuno lo seppe fare. Allo­ra il capo coppiere si ricordò di Giu­seppe, e disse al Faraone: «Ho conosciuto in carcere un giovane ebreo, che interpretò esattamente un mio sogno». Il Faraone mandò a chiamare Giuseppe, gli narrò quello che ave­va sognato e Giuseppe gli disse: «I due sogni hanno uno stesso signifi­cato: Dio ti fa sapere quello che sta per accadere. Il paese d'Egitto co­noscerà sette anni di abbondanza, cui seguiranno sette anni di carestia. Provvedi dunque a trovare un uomo intelligente e capace, che rac­colga tanti viveri durante i primi set­te anni, da distribuire poi nei sette anni di carestia, quando altrimenti non ci sarà nulla da mangiare». Il Faraone rispose: «Hai parlato bene, e Dio è con te perché ti ha rivelato tutte queste cose. Tu dun­que sei l'uomo adatto. Ecco: io ti do ogni potere, e tutti in Egitto do­vranno obbedire a te; dopo di me, tu sarai l'uomo più importante del regno». E così Giuseppe divenne vi­ceré dell'Egitto; il Faraone gli dette il suo anello, lo rivestì di abiti lus­suosi e gli mise intorno al collo un monile d'oro. Durante i sette anni di abbondan­za Giuseppe ammassò ogni quanti­tà di grano e di altri viveri, sicché quando venne la carestia in Egitto nessuno soffriva la fame, anzi veni­vano anche dai paesi vicini a com­perare grano. Lo stesso fecero i fra­telli di Giuseppe, perché la carestia si era abbattuta anche nella terra di Canaan. Essi non sapevano quale sorte era toccata a Giuseppe, e quando si presentarono davanti a lui, poiché egli era vestito all'egizia­na, non lo riconobbero. Li riconobbe però Giuseppe il quale, senza parere, si informò di loro e di come stesse il padre Gia­cobbe e il fratello minore Beniami­no; anzi, con un pretesto, li costrin­se a tornare una seconda volta, portando Beniamino con sé. Quando li ebbe tutti davanti, Giuseppe si commosse profonda­mente e decise che era il momento di farsi riconoscere. Disse: «Io sono Giuseppe, il vostro fratello che voi avete venduto. Ma ora non temete e non rattristatevi, perché è stato il Signore a disporre che io venissi qui prima di voi, per permettere che tutta la nostra famiglia sopravviva alla carestia». I fratelli, a quella rivelazione, fu­rono presi da grande paura perché temevano che Giuseppe si vendicasse di loro. Ma egli li rassicurò di nuovo e disse: «La carestia durerà ancora cinque anni; andate dunque a prendere mio padre, e le vostre mogli e i vostri figli e trasferitevi in Egitto: io vi darò una terra dove po­trete vivere in pace». Genesi 39-45.
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GLI EBREI VANNO IN EGITTO Genesi 46
 Giuseppe, il viceré d'Egitto, voleva che tutti i suoi familiari si salvassero dalla carestia; per questo dovevano trasferirsi dalla terra di Canaan, dove abitavano, in Egitto, dove egli poteva assicurare loro il necessario per vivere. Suo padre, il vecchio Giacobbe, si chiese se era bene lasciare la terra di Canaan, quella terra che il Signo­re Dio aveva promesso a lui e ai suoi discendenti. Giacobbe non sapeva come comportarsi; ma il Signore Dio gli venne in aiuto. Una notte, Giacob­be ebbe una visione e Dio gli disse: «Io sono il Signore, Dio di tuo pa­dre. Non temere di scendere in Egitto, perché laggiù io farò di te un grande popolo, e un giorno io farò tornare il tuo grande popolo in que­sta terra di Canaan». Giacobbe allora radunò tutti i suoi figli, le loro mogli e i loro bam­bini, con il bestiame e tutte le altre ricchezze che si erano acquistati nel­la terra di Canaan, e scese in Egitto. Gli Ebrei che scesero in Egitto era­no in tutto settanta persone. Gia­cobbe si fece precedere dal figlio Giuda, il quale si recò da Giuseppe ad annunciargli l'arrivo di tutta la famiglia di Giacobbe, in accordo con i suoi desideri.
 
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GIACOBBE E IL FARAONE Genesi 47
Settanta persone, l'intera famiglia di Giacobbe giunsero in Egitto. Giu­seppe, che non vedeva il padre da molti anni, fece attaccare il suo car­ro e gli andò incontro. Appena Giuseppe vide il padre, gli si gettò al collo e pianse a lungo dalla commozione. Giacobbe era non meno commosso, e gli disse: «Ora posso anche morire, perché ho visto che sei ancora vivo!» Giuseppe annunciò: «Vado ora ad informare il Faraone in persona dell'arrivo di mio padre e dei miei fratelli con le mogli e i figli». Il Faraone disse a Giuseppe: «Il paese d'Egitto è a tua disposizione: fa' risiedere tuo padre e i tuoi fratelli con le loro mogli e i loro figli nella parte migliore del paese, nella fertile terra di Gosen». Poi il vecchio Giacobbe fu intro­dotto alla presenza del Faraone d'Egitto. «Quanti anni hai? » gli chie­se il Faraone. «Centotrenta» rispose Giacobbe «trascorsi in una vita erra­bonda, tra molte difficoltà». Giacobbe e i suoi figli si stabiliro­no nella terra di Gosen, in Egitto, dove poterono continuare la loro attività di pastori e allevatori di be­stiame. E Giuseppe non mancava di provvedere alle loro necessità.
 
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LA VISIONE DI GIACOBBE Genesi 48
Un giorno Giacobbe-Israele mandò a chiamare suo figlio Giuseppe, vi­cerè d'Egitto, e gli riferì una visione che aveva avuto molti anni prima. Gli disse: «Quand'ero nella terra di Canaan, il Signore mi apparve, mi benedisse e mi fece una promes­sa dicendo: tu avrai una numerosa discendenza, i figli dei tuoi figli di­venteranno un popolo, e a quel po­polo io darò questo paese. Ricorda­lo dunque, tu e i tuoi fratelli e i vo­stri figli dopo di voi: il Signore vi ha promesso la terra di Canaan, e là un giorno vi farà tornare!»
 
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GIACOBBE PREDICE IL FUTURO DEI SUOI FIGLI Genesi 49
Il vecchio Giacobbe, chiamato an­che Israele, un giorno chiamò i suoi figli e disse: «Radunatevi, perché io vi annunci quello che accadrà nei tempi futuri. Radunatevi, figli di Giacobbe, e ascoltate Israele vostro padre».  Uno per uno essi passarono davanti a lui, e di ciascuno di loro egli manifestò qualche caratteristica, che sarebbe divenuta evidente nei loro rispettivi discendenti, una volta tornati nella terra di Canaan pro­messa dal Signore. A Issacar disse: «Tu sei robusto come un asino, e ti adatterai a sop­portare la dominazione dei nemici». A Nèftali disse: «Tu sei agile come una cerva, che sarà madre di bei cerbiatti». A Beniamino, l'ultimogenito dei suoi figli, disse: «Tu somigli a un lupo che sbrana la preda». A Zàbulon disse: «Tu abiterai lun­go la riva del mare, dove approde­ranno le navi.» A Aser disse: «Tu abiterai in una regione fertile, ricca di grano con cui si farà un pane degno del re». A Giuseppe disse: «Tu sei come il germoglio di un albero, verdeggian­te perché le sue radici sono presso una fonte d'acqua. Dio onnipotente ti aiuti e ti benedica!»
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GIUDA IL GIOVANE LEONE Genesi 49
Giacobbe-Israele, prima di morire, parlò ai suoi figli del loro futuro. Chiamò insieme Simeone e Levi, per dire loro che sarebbero stati di­visi e dispersi, perché si erano la­sciati prendere dalla collera ed erano stati violenti e crudeli. L'annuncio più sorprendente, però, Giacobbe lo fece a Ruben e a Giuda. A Ruben disse: «Tu sei il mio fi­glio maggiore, fiero e forte, bollente come l'acqua. Ma tu non sarai il più importante tra i tuoi fratelli, perché un giorno hai offeso tuo padre». A Giuda disse: «Sarai tu il più im­portante. Tu sei come un giovane leone: sottometterai i tuoi nemici, e anche i tuoi fratelli si inchineranno a te. Il bastone del comando resterà saldamente nelle tue mani, fino a quando verrà colui al quale esso appartiene, colui al quale tutti i po­poli obbediranno». Molti da allora si sono chiesti chi fosse quel discendente di Giuda, a cui appartiene il bastone del co­mando, colui destinato a guidare tutti i popoli. Molti secoli dopo si è capito che Giacobbe-Israele inten­deva parlare del Messia, il Signore Gesù, mandato da Dio a salvare il mondo intero.
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EFRAIM E MANASSE Genesi 48
Dopo essersi stabilito con tutta la fa­miglia nella terra di Gosen, Giacob­be mandò a chiamare il figlio Giu­seppe, viceré d'Egitto, per ringra­ziarlo ancora una volta del bene che aveva fatto alla sua famiglia, salvata dalla carestia. Come segno di riconoscenza Gia­cobbe volle adottare come propri i due figli di Giuseppe Efraim e Ma­nasse, che erano nati in Egitto e che erano ancora ragazzi. «Essi saranno figli miei» disse «e avranno l'eredità al pari degli altri miei figli: l'eredità della terra che il Signore ha promesso di dare ai miei discendenti». Volle poi che i due ragazzi si avvicinassero: li abbracciò, li baciò e li benedisse. Nella benedi­zione pose le proprie mani sul loro capo: incrociando le braccia, pose la mano destra sul capo di Efraim, che era il figlio minore, e la sinistra, la meno importante, su Manasse, il primogenito. Giuseppe volle correggere il pa­dre, e gli fece notare che doveva scambiare le mani per mettere la destra sul capo del figlio maggiore; ma Giacobbe non volle. «Anche se è il figlio minore, Efraim avrà una discendenza più numerosa, più pro­spera e potente di Manasse».
 
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LA MORTE DI GIACOBBE Genesi 47-50
Giacobbe-Israele si sentiva ormai giunto al termine della sua vita ter­rena. Chiamò Giuseppe e gli disse: «Quando sarò morto, portami via dall'Egitto e seppeliscimi nel sepol­cro dei miei antenati». «Farò come hai detto» rispose Giuseppe; ma Giacobbe voleva es­serne proprio sicuro; per questo ag­giunse: «Giuramelo!» Giuseppe lo giurò. Il sepolcro era la caverna di Ma­cpela, presso Ebron, nella terra di Canaan. Era una caverna che Abra­mo aveva comperato per darvi sepoltura a sua moglie Sara, e là era­no poi stati sepolti lo stesso Abramo, Isacco e sua moglie Rebecca, e la prima moglie di Giacobbe, Lia. Quando Giacobbe-Israele morì, in tutto l'Egitto si fece lutto per set­tanta giorni, perché era morto il pa­dre del viceré. Trascorsi quei giorni, Giuseppe si fece dare il permesso dal Faraone di andare a seppellire suo padre nella terra di Canaan. Con lui andarono i suoi figli e i suoi dipendenti, i suoi fratelli con le loro famiglie, i ministri e i consiglieri del Faraone, con i carri e i cavalieri. Fu una carovana imponente, che accompagnò il corpo di Giacobbe a Ebron, e poi tornò in Egitto.
 
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GIUSEPPE IL GIUSTO E I FRATELLI Genesi 50
Dopo che Giacobbe fu sepolto, i suoi figli furono presi da paura nei confronti del loro fratello Giuseppe. Essi, tanto tempo prima, lo avevano venduto schiavo, ed egli aveva do­vuto molto soffrire per questo: era stato portato in un paese straniero, era stato accusato ingiustamente, era stato messo in carcere. Poi era divenuto un uomo impor­tante: addirittura il viceré d'Egitto, ma certo, essi pensavano, non ave­va dimenticato il male ricevuto da loro. Se non li aveva puniti, anzi li aveva salvati dalla carestia, era stato, pensavano, per riguardo al loro comune padre. Ma ora che egli era morto, nulla lo avrebbe più tratte­nuto dal vendicarsi su di loro per il male ricevuto. Per questo i fratelli mandarono a dirgli: «Prima di morire, nostro pa­dre ti ha chiesto di perdonarci»; Poi andarono a gettarsi ai suoi piedi di­cendo: «Siamo tuoi schiavi!» Giuseppe si commosse profonda­mente e disse loro: «Non abbiate paura. Spetta a Dio distribuire pre­mi e castighi: sono io forse al posto di Dio? Anzi, il Signore nostro Dio dal male ha ricavato il bene, perché per mezzo mio vi ha mantenuto in vita e vi ha fatto crescere!»
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UN BIMBO FRA I GIUNCHI Esodo 1-2
Molti, molti anni erano trascorsi da quando gli Ebrei si trovavano in Egitto. Essi si erano accresciuti di numero, divenendo un popolo, e si erano fatti molto potenti nel paese che li ospitava. Tanto potenti che il re d'Egitto, il Faraone, cominciò a preoccuparsi. «Questi figli di Israele possono met­tersi a combattere contro di noi» pensava; «bisogna impedire che crescano ancora di numero». E per fare questo, dapprima il Fa­raone ridusse tutti gli Ebrei in schia­vitù, obbligandoli a lavorare duramente per lui; poi diede ordine che ogni bambino che nasceva in una famiglia ebrea, se era maschio, do­veva essere immediatamente fatto morire, gettandolo nel Nilo. Qualche tempo dopo quest'ordi­ne crudele, in una famiglia nacque un bimbo maschio, e i suoi genitori cercarono in ogni modo di salvargli la vita; per questo lo tennero nasco­sto per tre mesi. Quando non poté più tenerlo na­scosto, la madre prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece per impedire all'acqua di pe­netrarvi, vi mise dentro il bambino e lo depose tra i giunchi sulla riva del fiume Nilo.
 
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MOSE SALVATO DALLE ACQUE Esodo 1- 2
Per salvare il suo bambino dalla morte ordinata dal Faraone, una mamma ebrea pose il suo piccolo entro un cestello e lo affidò alle ac­que del Nilo. La sorella del bambi­no, che era già grandicella, si fermò a distanza per vedere che cosa sa­rebbe accaduto. Poco dopo la figlia del Faraone scese al fiume con le ancelle per fare il bagno; vide il cestello, lo mandò a prendere e vi trovò il bambino che piangeva. «E’ un figlio degli Ebrei» comprese, e ne ebbe compassione. La sorella del bimbo si avvicinò e le disse: «Vuoi che vada a chiamare una balia ebrea, perché si prenda cura del bambino al posto tuo?» La figlia del Faraone acconsentì: così la sorella andò a chiamare la madre, e la principessa le affidò il bimbo da allevare. Fu così che il bambino fu allevato senza pericolo dalla sua stessa ma­dre. Quando fu cresciuto, ella lo condusse alla principessa, la quale lo adottò come figlio e gli mise nome Mosè, che significa "salvato dalle acque". Mosè rimase alla cor­te del Faraone, dove poté studiare e diventare un uomo molto impor­tante e rispettato: il Signore Dio lo preparava così a svolgere i grandi compiti che intendeva affidargli.
 
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MOSE’ FUGGE NEL DESERTO Esodo 2
Gli Ebrei, il popolo d'Israele, si la­mentavano fortemente della loro condizione di schiavi in Egitto. Mosè era molto addolorato al vede­re il suo popolo oppresso. Un giorno vide un egiziano che picchiava un ebreo; si guardò attor­no, vide che non c'era nessuno, e allora uccise l'egiziano e nascose il suo corpo nella sabbia. Il giorno dopo vide due ebrei che litigavano tra loro; Mosè cercò di farli smettere, ma uno dei due gli disse: «Tu non sei nostro giudice. Vuoi forse uccidermi, come hai già ucciso l'egiziano?» Mosè ebbe pau­ra perché pensò: «Il mio segreto è ormai noto a molti!» Anche il Faraone, infatti, venne a saperlo, e cercò di catturare Mosè per metterlo a morte. Allora Mosè si allontanò dall'Egit­to e fuggì nel deserto. Fu così che Mosè capitò presso un pozzo, dove difese sette sorelle, che venivano ad abbeverare il loro gregge, dai soprusi di altri pastori. Riconoscenti, le sorelle lo condusse­ro a casa del loro padre Ietro, che accolse con gratitudine Mosè e gli diede in sposa una delle sue figlie. Mosè rimase dunque con letro, e si dedicò a pascolare il suo gregge.
 
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UNA FIAMMA CHE NON BRUCIA Esodo 3-4
Mosè stava pascolando il gregge di letro, suo suocero, nel deserto, quando lo colpi un fatto insolito: un roveto, cioè un cespuglio di rovo, era in fiamme: bruciava, ma non si consumava. «Voglio avvicinarmi ad osservare come mai» si disse con stupore Mosè. Quando si fu avvicinato, sentì una voce provenire dalle fiamme: «Mosè, Mosè!» «Eccomi!» rispose Mosè. «Non avvicinarti oltre» disse la voce. «Togliti i sandali, perché il luogo dove stai è terra santa.» Mosè si tolse i sandali, e la voce proseguì: «Io sono il Signore Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Gia­cobbe. Ho visto le sventure del mio popolo schiavo in Egitto e ho scelto te per liberarlo. Ti recherai dal Fa­raone a dirgli di liberare il mio po­polo e lasciarlo partire». Mosè si copri il volto, perché ave­va paura di guardare verso Dio; poi disse: «Chi sono mai io, Signore, perché il Faraone mi dia retta?» «Io sarò con te» lo assicurò il Signore. E Mosè: «Oltre tutto io faccio fatica a parlare, non ho la lingua sciolta». Il Signore gli disse allora: «Tu istruirai tuo fratello Aronne, ed egli parlerà al tuo posto».
 
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IL NOME DI DIO Esodo 3
In ginocchio di fronte al roveto ar­dente disse Mose al Signore: «Tu mi ordini di andare dal mio popolo a dire che lo vuoi liberare dalla schia­vitù, ma essi non mi crederanno e h mi chiederanno chi e che mi man­da dimmi qual è il tuo nome!» il Signore rispose: «Dirai: mi manda a voi Iahvè, Dio dei vostri padri, di Abramo, di Isacco, di Gia­cobbe; mi manda a condurvi fuori dall'Egitto, nel paese che io ho pro­messo a loro e ai loro discendenti».  Iahvè vuol dire COLUI CHE È, il Dio vero, l'unico Dio.
 
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LE PIAGHE D’EGITTO Esodo 4-12
Mosè si avviò verso l'Egitto, a com­piere la difficile missione che Dio gli aveva affidato. Lungo il cammino gli venne incontro suo fratello Aron­ne, e con lui si presentò al popolo d'Israele per annunciare che il Si­gnore aveva avuto pietà delle loro tribolazioni, e aveva deciso di ricon­durre il suo popolo nella terra di Canaan, la terra promessa, tanto fertile e ricca che era come se vi scorressero a fiumi il latte e il miele. Ma bisognava convincere il Fa­raone; egli non voleva lasciar parti­re gli Ebrei, che gli servivano come schiavi per costruire le sue città. Per bocca di Aronne, Mosè annunciò al Faraone molti castighi mandati da Dio per indurlo a liberare il popolo d'Israele. I castighi, le famose "piaghe d'E­gitto", puntualmente si verificarono: l'acqua di tutto l'Egitto fu cambiata in sangue, il paese fu invaso dalle rane, dalle zanzare, dai mosconi, ci fu una grande morìa nel bestiame, gli Egiziani furono colpiti da ulcere, i campi furono devastati prima dalla grandine e poi dalle cavallette, e per tre giorni tutto il paese d'Egitto fu immerso nel buio. Ad ogni castigo, il Faraone man­dava a chiamare Mosè e gli promet­teva che avrebbe lasciato partire il popolo d'Israele; ma appena il ca­stigo cessava, cambiava idea. Allora il Signore annunciò la piaga più grave: la morte di ogni figlio primo­genito degli Egiziani, dal figlio del Faraone al figlio dell'ultimo servo. Così accadde: nella notte annun­ciata, morirono tutti i primogeniti degli Egiziani, mentre nessuno fu colpito del popolo d'Israele. Il Faraone allora convocò in tutta fretta Mosè e gli diede l'ordine di andarsene via subito, lui e tutto il suo popolo, e lasciare per sempre il paese d'Egitto.«Andatevene tutti, voi Israeliti!» urlò il Faraone. «Anda­tevene dove volete, ma partite!»
    
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IL SEGNO DEL SANGUE Esodo 11-12
Per liberare il suo popolo dalla schiavitù, il Signore aveva dovuto far morire i primogeniti degli Egizia­ni. I primogeniti degli Ebrei invece si salvarono, perché il Signore ave­va ordinato al suo popolo di segna­re le porte delle proprie case con il sangue di un agnello. L'agnello poi doveva essere arro­stito al fuoco e mangiato in fretta, insieme con erbe amare, in piedi, con il bastone in mano, pronti tutti a partire perché il Faraone stava per dare il permesso. Quella cena fu detta Pasqua, pa­rola che vuol dire "passaggio", e il Signore diede l'ordine di ripeterla anche in seguito, per ricordare i prodigi da lui compiuti a favore del suo popolo: per ricordare il "pas­saggio" del Signore che, vedendo il segno del sangue dell'agnello sulle porte delle case, ha risparmiato dal­la morte i suoi amici; e per ricordare anche il" passaggio" che il Signore ha fatto compiere al popolo d'Israe­le dalla schiavitù dell'Egitto alla li­bertà nella terra promessa. E infatti, appena consumata la Pasqua, il popolo di Dio lasciò defi­nitivamente l'Egitto e si avviò, con l'aiuto di Dio e sotto la guida di Mosè, verso la sua nuova patria.
 
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E IL MARE SI APRI’ Esodo 14-15
Il popolo d'Israele era in cammino nel deserto; dopo una lunga schia­vitù in Egitto, finalmente Mosè, mandato da Dio, lo stava condu­cendo verso la terra che Dio stesso aveva promesso di dare ai discen­denti di Abramo, Isacco e Giacob­be. Il Faraone re d'Egitto aveva dato agli Ebrei il permesso di partire; ma ben presto se ne pentì, e al­lora radunò i suoi carri da guerra e si lanciò al loro inseguimento, per riportarli indietro. Li raggiunse in prossimità del Mar Rosso. Mosè e i suoi si trovavano in una situazione drammatica: il mare da­vanti e l'esercito del Faraone alle spalle. Tutto sembrava perduto, quando Dio intervenne con uno dei suoi più strepitosi prodigi. Per tutta la notte il Signore Dio fece soffiare un vento gagliardo che sospinse le onde, e il mare si aprì, lasciando un passaggio dove il po­polo d'Israele poté camminare sicu­ro e a piedi asciutti fino a raggiun­gere la sponda opposta. I carri del Faraone si lanciarono all'inseguimento lungo lo stesso passaggio, ma mentre lo stavano percorrendo le acque tornarono al loro posto, travolgendo gli insegui­tori. Gli Ebrei erano salvi, e tutti in­sieme ringraziarono il Signore.
 
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I PRODIGI NEL DESERTO Esodo 15-17
Con mano potente il Signore aveva liberato il suo popolo dalla schiavitù dell'Egitto, facendogli attraversare il mare a piedi asciutti. Ma molti altri prodigi il Signore compì per il suo popolo, in cammi­no attraverso il deserto per giungere alla terra promessa. Quando, dopo tre giorni di cam­mino, giunsero alle acque di Mara, gli Ebrei sperarono di potersi disse­tare, ma scoprirono che quelle ac­que erano salate, come il mare: il Signore però, attraverso Mosè, le rese buone da bere. Più avanti temettero di morire di fame, e si lamentarono con Mosè. Ma ecco che il giorno dopo essi tro­varono intorno all'accampamento un grande stormo di quaglie, che poterono prendere con le mani, e sul terreno una sostanza granulosa, bianca e dolce, buona da mangiare e molto nutriente: era la manna, che accompagnò il cammino del popolo di Dio fino a quando esso giunse nella terra promessa. Un'altra volta il Signore dissetò il popolo facendo scaturire acqua dal­la roccia; e quando gli Amaleciti at­taccarono Israele, Dio gli diede la vittoria, per amore di Mosè che aveva pregato per questo.
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I DIECI COMANDAMENTI Esodo 19-20
Il popolo d'Israele era da tempo in cammino nel deserto verso la terra promessa, quando piantò le tende ai piedi di un'alta montagna, il Monte Sinai. Là, Dio chiamò Mosè sul monte per quaranta giorni, poi gli diede due tavole di pietra su cui erano scritte dieci leggi, i dieci co­mandamenti. Disse il Signore a Mosè: «Io faccio un'alleanza con il mio popolo. Se esso osserverà que­ste dieci leggi, io sarò il suo Dio, lo guiderò e lo proteggerò». Questi sono i comandamenti: 

 
«Io sono il Signore Dio tuo!
1. Non  avrai altro Dio all'infuori di me.
2. Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio.
3. Ricordati di santificare la festa;
                   sei giorni lavorerai, il settimo è sacro al Signore.
4. Onora tuo padre e tua madre, e avrai lunga vita.
5. Non uccidere.
6. Non portare via a nessuno la moglie o il marito.
7. Non rubare.
8. Non dire il falso a danno del tuo prossimo.
9. Non desiderare le cose del tuo prossimo.
10. Non desiderare la moglie o il marito del tuo prossimo».
 
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IL VITELLO D’ORO Esodo 32-34
Quando scese dal monte, Mosè vide che il popolo non aveva sapu­to attenderlo. Anzi, aveva commes­so una grave mancanza, raffiguran­do Dio sotto forma di un vitello d'oro, e tutti lo adoravano dicendo: «Ecco il nostro Dio che ci ha con­dotti fuori dall'Egitto!» Mosè si indignò, e nell'ira gettò a terra le due tavole della legge, che si spezzarono. Poi distrusse il vitello d'oro e castigò chi l'aveva fatto. In­fatti nessuno ha mai visto Dio, e ai tempi di Mosé era proibito raffigu­rarlo in qualunque modo. Il giorno dopo Mosè tornò sul monte, e per prima cosa supplicò il Signore di perdonare il grave pec­cato del suo popolo. Nella sua bon­tà il Signore concesse il perdono e diede a Mosè altre due tavole della legge insieme con molte istruzioni su come il popolo di Dio doveva vivere, per piacere a Dio. Dopo altri quaranta giorni Mosè scese all'accampamento. Alla pre­senza di tutto il popolo parlò del patto che il Signore proponeva, e lesse la legge che il popolo doveva impegnarsi a rispettare in cambio del potente aiuto di Dio. Tutti ascol­tarono e si impegnarono, anche per i propri discendenti.
 
20
ASCOLTA ISRAELE Deuteronomio 6
Nel deserto Mosè spiegò al popolo tutti i comandamenti e i precetti del Signore; poi disse queste parole, che da allora molti ripetono come una preghiera: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti siano fissi nel cuo­re; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quan­do ti coricherai e quando ti alzerai.»
 

21
LA DIMORA DI DIO Esodo 35
I dieci comandamenti che Dio ave­va dato a Mosè sul monte Sinai era­no scritti su due tavole di pietra. Mosè fece costruire per loro una cassetta di legno di acacia rivestita d'oro e ve le pose al suo interno. Questa cassetta contenente le tavo­le si chiamò Arca dell'Alleanza. L'Arca aveva un coperchio d'oro sormontato da due cherubini: essi costituivano il trono di Dio, invisibi­le ma presente in mezzo al suo po­polo. Mosè diede disposizioni per­ché la presenza di Dio sull'Arca fos­se rispettata e venerata da tutti. Nel deserto non vi era un tempio in cui il popolo potesse recarsi ad adorare il Signore: per questo Mosè eresse una tenda speciale, da smontare e rimontare ad ogni tappa del viaggio. Questa tenda era di lino finissimo tinto di porpora ed era di­visa in due ambienti: uno contene­va l'Arca, l'altro oggetti preziosi tra cui un candelabro d'oro a sette bracci e un altare d'oro su cui si bruciava l'incenso profumato. Al di fuori della tenda, di volta in volta veniva montato un recinto con il grande altare dei sacrifici, dove venivano bruciati gli animali scelti e le primizie dei raccolti che il popolo d'Israele offriva al Signore.
 
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ESPLORATORI IN CAANAN Numeri 13
Prima di entrare con tutto il popolo nella terra promessa, Mosè mandò un gruppo di uomini ad esplorarla. Erano uno per tribù, e tra loro vi era il braccio destro di Mosè, che si chiamava Giosuè. Dopo quaranta giorni gli esplora­tori fecero ritorno e riferirono così: «Abbiamo trovato una terra ricca e fertile, tanto che pare vi scorrano latte e miele: guardate alcuni dei suoi frutti!» E mostrarono al popolo un grappolo d'uva tanto grosso, che dovevano portarlo in due so­speso ad una stanga.
 
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QUARANT’ANNI NEL DESERTO Numeri 14
«La terra di Canaan è fertilissima» dissero gli esploratori al popolo d'I-sraele «e questi frutti meravigliosi che vi abbiamo portato lo dimostrano. Però questa terra è abitata da popoli potenti, che hanno costruito grandi città fortificate. Inoltre alcuni di loro sono grandi come giganti!» Al sentire quelle parole molti Israeliti si spaventarono e dissero; «Non potremo mai conquistare quella terra. È meglio per noi torna­re in Egitto, altrimenti moriremo in questo deserto!» Mosè e Giosuè cercarono di cal­mare il popolo e dissero: «Quella è la terra che il Signore ci ha promes­so. Egli è con noi e di certo ci darà la forza di conquistarla». Ma il po­polo ribelle non voleva sentire ra­gioni e riprese a lamentarsi. Allora, al di sopra della tenda che conteneva l'Arca dell'Alleanza, luo­go della presenza invisibile di Dio, apparve a tutto il popolo d'Israele la gloria del Signore. E il Signore dis­se: «Ecco, voi non entrerete in quel­la terra: la darò ai vostri figli!» E tu così che il popolo d'Israele rimase nel deserto per quaranta anni, e solo i figli di quegli uomini che ave­vano dubitato del Signore poterono entrare nella terra promessa.
 
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LA CONQUISTA DELLA TERRA PROMESSA Deuteronomio34
Mosè, l'amico di Dio, colui che par­lò con il Signore faccia a faccia, non poté guidare il popolo d'Israele alla conquista della terra promessa. Aveva centoventi anni quando il Si­gnore, dalla vetta del Monte Nebo, gli concesse di vedere la terra promessa in tutta la sua estensione: da Dan a Bersabea, dal fiume Giorda­no al mare Mediterraneo. Poi Mosè morì, e il suo posto alla guida del popolo fu preso da Gio­suè. Il Signore gli disse: «Sii forte e coraggioso, perché tu dovrai guida­re il mio popolo alla conquista della terra che ho promesso di dargli. Se voi osserverete tutti i precetti che vi ho dato per mezzo del mio servo Mosè, non abbiate timore, perché io sarò con voi!» Giosuè guidò i guerrieri del po­polo in numerose spedizioni e bat­taglie vittoriose, e conquistò la terra di Canaan. Poi divise il territorio in tante parti, e le assegnò ciascuna a una delle tribù che componevano il popolo d'Israele. Alla tribù di Levi però non assegnò un territorio, per­ché quella tribù era addetta al servi­zio del Signore presso la tenda della sua dimora, la tenda che conteneva l'Arca dell'Alleanza. La tribù di Levi non aveva terra, perché la sua ric­chezza era il Signore.
 
25
RAAB E LE SPIE Giosuè 2
Per entrare nella terra promessa, la prima città che Giosuè doveva con­quistare era Gerico, una città temi­bile con le sue mura possenti. Per conoscere meglio la sua forza, Gio­suè mandò due uomini a spiare al­l'interno della città. Il re di Gerico se ne accorse, e allora fece chiudere le  porte e ordi­nò di cercare le spie e di catturarle. I due uomini erano entrati in casa di una donna, che li fece salire sulla terrazza e li nascose sotto una cata­sta di steli di lino. Quando le guar­die del re vennero a cercarli, la donna, che si chiamava Raab, dis­se: «Sono fuggiti: correte e li rag­giungerete!» Salita sulla terrazza, ella disse ai due Israeliti: «So che il Signore è con voi, e certo prenderete questa città. Quando vi entrerete, usate be­nevolenza a me e alla mia famiglia!» I due le assicurarono: «Quando arri­veremo, tieni la tua famiglia in casa con te lega una cordicella rossa alla finestra, perché i nostri guerrieri possano riconoscere la tua casa e salvare tutti coloro che vi abitano». La casa di Raab era posta sopra le mura; la donna allora calò i due uomini dalla finestra con una corda, ed essi tornarono sani e salvi all'ac­campamento di Israele.
 
26
ATTRAVERSO IL GIORDANO Giosuè 3
Giosuè tolse l'accampamento da ol­tre il fiume Giordano, per attraver­sarlo e così entrare nella terra pro­messa. Tutto il popolo si mosse, preceduto dall'Arca dell'Alleanza, portata a spalla dai sacerdoti. Non appena i piedi dei sacerdoti toccarono l'acqua, il fiume interrup­pe il suo corso: le acque si fermaro­no a monte, lasciando il greto asciutto. Tutti poterono passare al­l'altra riva, dopo di che il fiume ri­prese a scorrere. Fu questo un altro grande prodi­gio, che Dio fece per il suo popolo.
 
27
LE MURA DI GERICO Giosuè 6
Giosuè e i suoi guerrieri erano giun­ti sotto le mura di Gerico. La città aveva chiuso le porte delle sue mura possenti davanti a loro: come conquistarla? Ancora una volta il Signore inter­venne in aiuto del suo popolo, che seguì le sue disposizioni e così con­quistò la città. Ecco come avvenne. Per sei giorni, mantenendo un assoluto silenzio una processione fece il giro intorno alle mura: in te­sta camminavano sette sacerdoti con la tromba in mano, quindi veni­va l'Arca dell'Alleanza e infine Gio­suè con i guerrieri. Il settimo giorno tutti si alzarono all'alba, e girarono intorno alla città sette volte: a quel punto i sacerdoti suonarono le trombe e tutti i guer­rieri lanciarono un forte grido. A quel suono, senza neppure toccarle, le mura di Gerico crollarono e i guerrieri, disposti tutt'intorno ad essa, entrarono nella città e la con­quistarono. Da quella città per la quale non avevano combattuto, per volontà del Signore gli Israeliti non presero bottino. L'oro, l'argento, il bronzo e il ferro che vi trovarono furono ri­servati e dedicati al Signore Dio e furono posti nel tesoro che stava presso la sua dimora.
 
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QUEL GIORNO IN CUI IL SOLE SI FERMO’ Giosuè 10
Gli Israeliti conquistavano una dopo l'altra le città della terra promessa. Allora gli abitanti di Gabaon si dis­sero: «Meglio cercare pace con il popolo d'Israele, piuttosto che com­batterlo ed essere anche noi sconfit­ti». E stipularono un'alleanza con Giosuè. Cinque re delle città vicine allora decisero di muovere guerra a Ga­baon; radunarono i loro eserciti e assediarono la città. I suoi abitanti mandarono messaggeri a Giosuè, per invocare il suo aiuto. Giosuè accorse con i suoi guerrieri, e ingaggiò battaglia con gli eserciti dei cinque re. Piombò su di loro all'improvviso, e gettò lo scom­piglio fra i loro soldati; ma si avvici­nava la sera e la battaglia non era ancora decisa. Allora Giosuè invocò l'aiuto del Signore, e disse: «Sole, fermati su Gabaon!» E, con grande meraviglia, quel giorno il sole non tramontò prima che il popolo d'Israele avesse riportato completa vittoria su tutti i nemici. Non era mai accaduta e non accadde mai più una cosa simi­le, che il sole si fermasse nel cielo. E Giosuè divenne famoso in tutta la regione, come grande condottiero e come amico del Signore.
 
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GIOSUE’ PARLA NELLA VALLE DI SICHEM Giosuè 24
Quando ebbe conquistato la terra promessa e l'ebbe divisa tra le tribù del popolo d'Israele, Giosuè convo­cò a Sichem i rappresentanti di tutte le tribù. Essi accorsero numerosi, e Giosuè parlò loro. Egli ricordò la storia dei loro an­tenati, di Abramo, Isacco; Giacob­be; ricordò la schiavitù dell'Egitto e le grandi gesta compiute da Dio per liberare il suo popolo; ricordò la legge che Dio aveva dato per mez­zo di Mosè; ricordò la bontà del Si­gnore che si era manifestata anche nel dare loro la terra che ora abitavano. Parlando a nome del Signore Giosuè aggiunse: «Vi ho dato una terra, che non avete lavorato; abitate in città, che non avete costruito; mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantato. Ricordatevi di tutto questo. Dunque, temete il Signore e servitelo con sincerità e fedeltà. Rispettate la sua volontà, obbedite a lui solo e non lasciatevi andare ad adorare i falsi dèi degli altri popoli!» «Orbene» disse ancora Giosuè «decidete oggi se volete servire il Si­gnore, o se preferite le divinità degli altri popoli. Quanto a me e a tutta la mia famiglia, noi vogliamo servire per sempre il Signore!»
 
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ISRAELE SCEGLIE IL SIGNORE Giosuè 24
Grande era la folla che si era riunita nella valle di Sichem, e grande era l'attenzione con cui aveva ascoltato il discorso di Giosuè suo capo. Gio­suè aveva invitato il popolo d'Israe­le a scegliere: o servire per sempre il Signore Dio, o allontanarsi da lui per onorare gli dèi stranieri che ave­vano trovato nella terra di Canaan. Così il popolo d'Israele rispose a Giosuè: «Noi serviremo per sempre il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce». Così essi giurarono, per sé e per i propri discendenti poi fecero ritorno alle loro case.
 
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DEBORA E I CARRI DI FERRO Giudici 4-5
Il popolo d'Israele viveva in pace nella terra promessa, ma spesso do­veva far fronte ai popoli vicini che gli muovevano guerra. Allora i capi d'Israele, che si chiamavano giudici, invocavano l'aiuto del Signore e ra­dunavano i guerrieri per difendersi dai nemici. Una volta era giudice d'Israele una donna, Debora, quando il terri­torio del nord fu attaccato dal po­tente esercito di Sisara. Gli uomini d'Israele avevano molta paura, per­ché erano tutti a piedi, e ben poco potevano fare contro il nemico, che aveva novecento carri di ferro. Ma Debora radunò i guerrieri vicino alla pianura e li incoraggiò: «Il Signore ci darà la vittoria, perché avanza in battaglia davanti a noi» disse. I nemici sui carri di ferro correvano per la pianura, quando cominciò a piovere: e scese tanta acqua da allagare tutta la pianura; i carri di ferro si impantanarono e rimasero bloccati; i nemici si diedero alla fuga, inseguiti dai guerrieri d'Israele, che riportarono così una strepitosa vittoria. Debora cantò allora un inno di ringraziamento al Signore, che combatté per il suo popolo mandando la pioggia provvidenziale.
 
 

 



 

 

 

 


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